QUI TUTTO E’ ALTROVE E TUTTO E’ QUI

Qui è tutto altrove e tutto è qui
opera pubblica, residenza internazionale Vìs a Vìs Fuoriluogo, Lucito, Molise.

A Lucito durante la festa del Maggio un uomo viene ricoperto di piante selvatiche, così vestito si aggira per il paese. È una presenza bellissima e inquietante, un uomo selvatico che ci ricorda i tanti culti arborei e ancestrali del Sud di Italia, come il matrimonio tra gli alberi che celebra le nozze simboliche tra due alberi di specie diverse, unendo la chioma di uno con il tronco dell’altro.
Decidiamo anche noi di celebrare un matrimonio, ma questa volta tra due piante selvatiche, una pianta autoctona (anche se arrivata tanto tempo fa dall’Oriente ) il Verbasco e un Ailanto, pianta esotica e alloctona, decidiamo di unirle per la radice in un altorilievo modellato con l’argilla dei monti molisani raccolta a Sant’Elia a Pianisi dal ceramista Felice D’Addario, una grande tavola botanica in terracotta.
Sembra un paesaggio immobile e a tratti intatto quello del Molise, forse Lucito, il nome del paese in cui ci troviamo, viene proprio da lucus, bosco sacro, uno dei tanti boschi sacri del mondo antico che ci ricorda Frazer ne “Il ramo d’oro”.
Ma oltre più dei lecci e agli ulivi, intorno al paese e sulle rive del fiume Biferno, negli spazi abbandonati dalle colture troviamo molte piante di Ailanto o albero del cielo, come lo chiama Maria del forno, che dichiarano la natura ibrida e contaminata di questo paesaggio, un paesaggio in movimento a dispetto della prima fugace impressione.
L’Ailanto come molte piante viaggiatrici ed infestanti rappresenta una presenza problematica nel paesaggio e nell’immaginario.
Le due piante scelte per l’altorilievo raccontano di viaggi vegetali e umani, dell’incontro con l’altro, di un qui e un altrove in cui in Molise si inciampa ad ogni passo.
È Agosto e molti lucitesi tornano al paese, alcuni ci raccontano la propria storia di emigrazione. La sera al Bar Boys, l’unico bar, si parla il dialetto locale ma contaminato da accenti diversi, “ Qui è tutto altrove” dice Gabriele “ E tutto è qui” rispondo quasi senza pensare.

Dal testo critico di Matteo Innocenti:
“Come si era anticipato, gli aspetti dell’ibridazione e della convivenza sono anche al principio dell’opera Qui tutto è altrove e tutto è qui. Il luogo di lavoro di Caterina e Gabriele è stata la Cappella di San Gennaro. È dove si sono dedicati all’attività laboriosa, e tecnicamente complessa, della realizzazione delle sculture; ricorrendo, quando possibile e anche quando necessario, alle risorse del luogo – ad esempio, così è avvenuto con il forno per la cottura delle ceramiche. La cappella ha valso anche da punto di incontro con gli abitanti di Lucito, un posto eccellente per le narrazioni reciproche: da una parte gli artisti desiderosi di condividere le proprie idee sul progetto, dall’altra le persone che, in modo generoso, raccontavano la propria storia (spesso legata a partenze dal paese e ritorni, parziali o definitivi). Ciò che ricorre ovunque, perché fa parte della natura umana, in quanto possibilità di migliorare le condizioni di sopravvivenza e di residenza – mi sto riferendo agli spostamenti e alle migrazioni, e agli elementi di enorme complessità che ne stanno a motivazione e conseguenza – condiziona in modo effettivo l’identità del Molise da oltre un secolo (vale lo stesso per altre regioni italiane). Non dobbiamo semplificare, i movimenti migratori della crisi odierna, provenienti soprattutto dal continente africano e dal medio Oriente sono ben diversi, e del tutto estranei a questa trattazione. A ogni modo, osservando gli accadimenti da una visuale più ampia rispetto a quella dell’attualità, possiamo trovare almeno un elemento comune rispetto alle varie incarnazioni: una prossimità contingente tra persone e popoli che si trovano in uno status quasi opposto, riconosciuto come tale sia da chi emigra e che da chi è stanziale. Da una parte chi ha necessità di ottenere quanto gli manca, dall’altra chi rivendica il diritto di cedere poco o nulla di quanto già gli spetta: intorno a questo avviene il difficile, spesso purtroppo drammatico, rapporto tra gli estremi.
In genere siamo disabituati a osservare la natura, persino quando la sua potenza prospera davanti al nostro sguardo; altrimenti sapremmo meglio che l’ibridazione, la commistione, la contaminazione – si possono usare tanti termini per uno stesso concetto – si perpetua costantemente in essa. Il desiderio di una stabilità, che è legittimo ed ha del giusto, tende a limitare la nostra percezione della transitorietà dei fenomeni; ma non possiamo comunque disconoscere che i fenomeni sono sempre sottoposti a essa. A volte un episodio specifico, può assumere un significato molto più ampio, quasi rivelatorio. Gli artisti nelle loro passeggiate e perlustrazioni hanno presto notato nella vegetazione la presenza forte dell’ailanto, il cui nome significa “albero del paradiso” perché cresce molto in altezza. La sua origine è cinese, ma è naturalizzato in tanti altri habitat, dai paesi asiatici agli Stati Uniti, e in molte zone d’Europa tra cui l’Italia. Si tratta di una specie resistente, capace di prosperare in condizioni avverse e in suoli poveri, persino in quelli ruderali. Questa caratteristica, insieme alla sua provenienza, hanno fatto sì che venisse considerato infestante: un albero alloctono (introdotto da altrove) che ruba spazio e nutrimento a quelli autoctoni (originali del luogo). Se la posizione comune, in fatto di alberi e piante di questo tipo, si volge verso l’abbattimento e l’estirpazione, il dibattito in ambito botanico è, per fortuna, aperto e denso di suggestioni. In fondo la questione che viene da porsi è: quando possiamo considerare qualcosa, sia vegetale o animale, appartenente a un luogo, e quando no? Il quid della sta nella durata della permanenza, o forse nel rapporto con le altre specie? O nel tipo di scambio che avviene con l’habitat? Insomma, sono domande che, in maniera abbastanza curiosa, potremmo traslare, senza grandi mutamenti, ai rapporti umani.
Stimolati da queste riflessioni, Caterina e Gabriele hanno realizzato un
altorilievo in terracotta – fatto con un’argilla locale – rappresentandovi un ramo di ailanto e uno di verbasco, uniti dalle radici (una suggestione rispetto al rito pagano del “matrimonio degli alberi”). L’opera è stata pensata sin dall’inizio per la nicchia ovale, oggi vuota, che sta al centro della facciata della Cappella di San Gennaro, proprio sopra il portale. Riporto ancora un passaggio scritto dagli artisti:

Anche l’ailanto come tutte le piante viaggiatrici è una presenza problematica nel paesaggio e nell’immaginario. Noi lo osserviamo in tutta la sua bellezza in uno spazio verde nel paese, vicino a una pianta di verbasco.[…] Decidiamo anche noi di celebrare un matrimonio, tra due piante selvatiche, e di unirle in un altorilievo.

Un’immagine a evocare il carattere vitale che l’unione delle diversità ha avuto storicamente per la nascita e lo sviluppo di ogni civiltà, pur attraverso un rapporto dialettico complesso tra il mantenere e l’acquisire. Mi viene da pensare, in conclusione, che le due opere, così dense di significato, sono parte di un processo analogo, per essere accettate e divenire parte del paesaggio lucitese”.

Qui tutto è altrove e tutto è qui
2023
Opera pubblica, comune di Lucito, Molise, Ex-cappella di San Gennaro

altorilievo, terracotta rossa molisana raccolta dal ceramista Felice D’Addario a Sant’Elia in Pianisi

Caterina Sbrana e Gabriele Mallegni